Home I MITI DELLA PSICOLOGIA NEW AGE: L’EGO COME UN GREMBIULE. Perché confondiamo le maschere con ciò che siamo? I MITI DELLA PSICOLOGIA NEW AGE: L’EGO COME UN GREMBIULE. Perché confondiamo le maschere con ciò che siamo?

I MITI DELLA PSICOLOGIA NEW AGE: L’EGO COME UN GREMBIULE. Perché confondiamo le maschere con ciò che siamo?

SIAMO ATTORI PERSI IN UN RUOLO CHE NON SAPPIAMO INTERPRETARE

Il pericolo che non viene percepito non si può prevenire, l’errore di colui che non sa di essere cosciente è arduo da evitare.

 

La tendenza di molte persone è pensare che, quando esista un sostantivo in uso in una determinata lingua parlata, questo faccia sempre riferimento ad un’entità, sia essa di tipo fisico, piuttosto che spirituale, emozionale o concettuale. Molte volte è questa la trappola nella quale si cade quando si parla di “EGO”.

Così si pensa che l’ego sia “qualcosa”, un’entità psichica esistente, responsabile e/o soggetta ad azioni psichiche, stati d’animo, emozioni, decisioni, complessi, ecc.

In questo modo, l’uso del termine “ego” si trasforma per eludere la nostra responsabilità in qualità di soggetti psichici. L’ego viene ritenuto responsabile delle decisioni e azioni che in nessun modo vorremmo attribuire a noi stessi, esso diventa il nostro grembiule: quando cuciniamo, al fine di non macchiarci possiamo agire con molta attenzione, oppure indossare un grembiule, di modo che le macchie finiscano lì, invece che sui vestiti.

Da noi, dal nostro “Sé interiore” o nostro “vero Sé” emanano unicamente cose buone, decisioni adeguate e percezioni certe della realtà. Dall’ego invece scaturiscono decisioni egoistiche, paure, percezioni distorte della realtà, errori, e ostacoli a non finire alla nostra felicità e quella di chi ci circonda. Noi, il nostro vero io, siamo innocenti. Per tanto ci sentiamo come bambini impotenti, dominati dall’ego, e pure stupidi, perché ci facciamo ingannare continuamente da esso.

Il sostanzialismo tipico dell’uso ingenuo del linguaggio, che Tarski analizza con successo nella sua distinzione tra linguaggio e metalinguaggio, è il responsabile dell’errore. Eppure è tendenza di molti esser umani quella di eludere le proprie responsabilità, e non l’errore stesso, che ha diffuso fino allo sfinimento l’uso del termine “ego”, usandolo come capro espiatorio psichico-morale.

Ego non si riferisce a nessun tipo di entità, ma si tratta di una mera confusione psico-linguistica. Gli esseri umani, come ben dicono i Sufi da molti secoli a questa parte, usano uno svariato numero di maschere, personaggi o personalità, i quali incarnano i differenti ruoli che interpretano lungo la loro vita: ora il padre amoroso, ora il generale implacabile, ora l’amante clandestino, ora il marito perfetto, il cittadino rispettabile, ecc. È impossibile vivere in una società pensando di eludere un qualsiasi tipo di copione – o ruolo, come si preferisca chiamarlo – e tali copioni che interpretiamo durante la vita sono differenti e vari, a seconda del teatro in cui vanno in scena.

Un buon attore cinematografico o di teatro è colui che sa immedesimarsi perfettamente nella parte, mentre quello mediocre invece no, non ci crede, non si identifica con il ruolo, ovvero è sempre se stesso, piuttosto che il personaggio che deve interpretare.

La persona cosciente sa che ogni ruolo che interpreta in questa società non è altro che un ruolo e che quest’ultimo non è l’attore, ma che egli lo è.

Eppure il buon attore è quello che si identifica con il personaggio. Ecco allora che spuntano attori molto bravi, che arrivano perfino a confondere loro stessi con il ruolo che interpretano, arrivando a farlo anche con gli altri, ovvero pensando che anche gli altri siano effettivamente il ruolo che vanno recitando nell’opera della vita, in questo gran teatro che è il mondo. È proprio questa confusione tra attore e ruolo che chiamiamo – e qui sì, propriamente – ego.

L’ego non è un’entità, ma una confusione linguistica e, precisamente, una confusione che consiste nel pensare di parlare di “ruolo che stiamo interpretando”, quando in realtà stiamo parlando di noi stessi.

Parlando di ego, stiamo menzionando un errore linguistico, ma la confusione dei terapeuti impregnati dalla new age, si basa sul credere che stiamo usando il linguaggio, ovvero, che stiamo parlando del mondo extralinguistico, del cosiddetto mondo reale e non di un errore linguistico.

L’ego è una confusione, è pensare che io sono il personaggio che interpreto. E come ogni personaggio di teatro è figlio di un copione, che solitamente viene scritto su un pezzo di carta, l’ego è un buono a nulla, incoerente, incompleto, senza un origine reale e una finalità reali, se non quella di farci attraversare questa scena teatrale e per intrattenere lo spettatore. L’ego è perciò molto debole, malaticcio, non sopravvive oltre l’opera teatrale, non sussiste nella realtà, perché è manchevole nella sostanza.

Per queste ragioni, per la sua effimera essenza, per l’essere un ruolo (scritto su di un copione e non sulla vita), viene percepito ovviamente come debole, bisognoso di essere alimentato continuamente, bisognoso di protezione e attenzioni speciali. Attenzioni che noi prontamente corriamo a dare, giacché la nostra confusione col personaggio fa attribuire a noi stessi le debolezze e la non sostenibilità dell’ego, e a farci temere i suoi timori. Lo ricopriamo di attenzioni e lo alimentiamo, fino a difenderlo ferocemente, a causa di tale confusione alla quale siamo soggetti.

Ma indubbiamente chi rappresenta il personaggio sono io, l’attore, ed è a me stesso che devo attribuire gli errori che commetto quando lo interpreto. Il ruolo non va in scena da solo, sono io il responsabile reale di tutto quanto faccio. Sono anche il responsabile della confusione nella quale sono immerso quando creo il ruolo che interpreto.

Ma tale responsabilità non piace per niente. Io non voglio essere responsabile se non ovviamente delle cose buone che provengono dalla vita e dall’universo. Il male e gli sbagli hanno sempre a che fare con altro. E siccome qui non vi è nessun altro, ecco che l’attribuiamo all’ego, che così diventa “un altro”, qualcosa o qualcuno distinto da me, dal mio vero io.

Per cui sono ben felice quando un professionista specialista nel funzionamento della psiche umana mi toglie suddetta responsabilità, sono contento che un nutrito numero di terapeuti mi assicurino che non sono io il responsabile, ma il mio ego: una specie di tiranno che mi domina, nonostante io non voglia.

Allora pago lo psicologo bello contento per avermi scaricato della responsabilità e per aver ripulito la mia coscienza, sebbene questo significhi riconoscermi talmente debole che perfino l’ego – questo “ente” così moscio che ha bisogno di essere alimentato psicologicamente – riesce a dominarmi con facilità ad una frequenza allarmante.

I terapeuti d’altra parte ripetono incessanti questo mantra ai loro “pazienti”, giacché in questo modo le loro liste d’attesa per le consulenze saranno sempre piene, facendo loro credere di star aiutandoli, visto che se ne vanno alleviati grazie alle consulenze, consigli e trucchetti che impartiscono loro.

Tuttavia, il pericolo di non percepire non può essere previsto, e l’errore di colui che non è cosciente è arduo da evitare. Con l’uso e l’abuso dell’ego-grembiule mi stanco, impedisco il mio progresso e la mia maturazione come essere umano pienamente responsabile di me stesso, delle mie azioni e delle conseguenze delle stesse. Tale maturità che conduce all’età adulta si trasforma in qualcosa di impossibile o di straordinariamente difficile, mentre il mio infantilismo, che mi porta a credere e desiderare di essere un bambino innocente e impotente si rafforza e acquisisce una vera natura (visto che non posso scappare dal mio ego con decisioni mie).

Al posto di adulti abbiamo bambini senza nessun desiderio di crescere né maturare.

I guru, i maestri, le guide, i governanti, i capi, i genitori, i leaders, e tutte le “autorità” simili, sono affascinate dall’ego, Satana non poteva trovare un miglior sostituto.

Il sostanzialismo prevede che ogni sostantivo, ogni nome del nostro linguaggio, faccia riferimento a una sostanza, a qualcosa di reale, di materiale, energetico o spirituale.

L’assenza di distinzione tra uso e menzione del linguaggio è pure la responsabile di un paradosso senza fine. Non posso non citare, sebbene solo a memoria, il famoso paradosso del ponte in “Don Chisciotte”: il libro narra di un signore che possedeva dei terreni attraversati da un piccolo fiume. Comandò che fosse costruito un ponte per passarlo e vi mise su ambo i lati due guardie e una forca, con l’ordine di far fare giuramento a quanti volessero passare e qualora avessero giurato il falso di impiccarli seduta stante. Passò quindi uno studente e quando le guardie gli chiesero di fare giuramento egli disse: “Giuro che io possa morire appeso a quella forca” indicandola. Come potevano fare le guardie per compiere ai doveri impartiti dal loro signore?

Il termini che usiamo per riferirci alle cose dipendono dal contesto teorico nel quale le situiamo. Per i Sufi sono i nafs.

Neil Douglas-Klotz, nel suo libro The Sufi Book of Life, espone un interessante metodo per far sì che i diversi personaggi che uno interpreta agiscano in squadra e in maniera coordinata.

Anche per alcune altre correnti psicologiche, nate circa un secolo fa (specialmente quelle che attingono dalla psicoanalisi), l’ego ha un esistenza reale. Quindi la definizione che ancora oggi possiamo trovare nei vari siti di tali correnti recita più o meno questo: “L’ego è, in psicologia, l’istanza psichica per mezzo della quale l’individuo si riconosce come tale ed è cosciente della propria identità. L’ego per tanto è il punto di riferimento dei fenomeni fisici, che media tra realtà del mondo esteriore, gli ideali del super-io e gli istinti legati ad esso”.

Che questa confusione possa essere spiegata a partire dalla mia biografia non diminuisce per niente la mia responsabilità e nemmeno giustifica le mie azioni.

Concludo con un racconto Sufi:

C’era una volta un sagrestano cattolico che aveva l’abitudine di friggersi un uovo dopo aver celebrato ogni messa, usando come fuoco la fiamma del cero più grande della chiesa. Un bel giorno venne scoperto dal parroco, ma prima di venir rimproverato il sagrestano balbettò: “È che il diavolo mi ha tentato”.

Narra la storia che in quel preciso momento apparve il diavolo in persona, lo schiaffeggiò e gli disse: “Ah, varrei così poco? Un uovo fritto!

 

Francisco Puertes

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Alberto José Varela

Fundador de empresas y organizaciones; creador de técnicas, métodos y escuelas; autor de varios libros. Estudiante autodidacta, investigador y conferencista internacional, con una experiencia de más de 40 años en la gestión organizacional y los RRHH. Actualmente crece su influencia en el ámbito motivacional, terapéutico y espiritual a raíz del mensaje evolutivo que transmite.

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